IL MESSAGGERO. ROMA (15 novembre) - «Speravo nella coscienza, nella pietà di qualcuno. Ma chi copre un assassino può avere una coscienza?». Raniero Busco, rinviato a giudizio per l'omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma, a Roma, 19 anni fa, rivela a Gente, tutta la sua disperazione.
Non ho mai dato un morso in vita mia. «Mi accusano di aver lasciato quel morso sul seno di Simonetta, ma io non ho mai dato un morso in vita mia». E aggiunge: «Per i miei figli e per mia moglie Roberta. Per loro continuerò a urlare la mia innocenza e a lottare per dimostrarla. Non possono farmi questo, io sono innocente, non ho ucciso Simonetta».
Il rapporto con Simonetta. Il processo a Busco inizierà il prossimo 3 febbraio. «La storia tra me e Simonetta è stata uno storia con alti e bassi, basata sulla fiducia e sul rispetto. Non c'è mai stato nessun litigio. Ci siamo lasciati per un breve periodo, nell'estate del 1989. Abbiamo fatto le vacanze con gli amici della comitiva. Poi siamo tornati insieme. È stata la mia ragazza fino a quel 7 agosto, quando è stata uccisa».
Simonetta vista la sera prima. Busco spiega di non aver visto Simonetta quel giorno: «L'avevo vista la sera prima». Quanto alla traccia di saliva trovata sul reggiseno della ragazza, spiega: «Il sabato ci siamo incontrati da Anna Rita, un'amica. Aveva la casa libera. A 20 anni si cercano i momenti per stare insieme».
Un interrogatorio durato 12 ore. Di quei giorni tragici Busco ricorda il lungo interrogatorio: «Durò 12 ore, con davanti le foto del corpo di di Simonetta martoriato. Mai, lo giuro sui miei figli, avrei potuto fare una cosa così. Solo un animale può ridurre una persona così. Non credo che mi avrebbero lasciato andare se avessero avuto qualche dubbio. Eppure, dopo una notte e una mattina intere chiuso in quell'ufficio di tutta la mia deposizione hanno scritto solo una pagina. Per 17 anni tutto si è fermato. Poi con le nuove indagini sono tornati a chiedermi dov'ero. Io non lo ricordavo più. Ho chiesto di cercare nella mia deposizione di allora. Ma nessuno aveva trascritto quell'alibi».
Non ho mai dato un morso in vita mia. «Mi accusano di aver lasciato quel morso sul seno di Simonetta, ma io non ho mai dato un morso in vita mia». E aggiunge: «Per i miei figli e per mia moglie Roberta. Per loro continuerò a urlare la mia innocenza e a lottare per dimostrarla. Non possono farmi questo, io sono innocente, non ho ucciso Simonetta».
Il rapporto con Simonetta. Il processo a Busco inizierà il prossimo 3 febbraio. «La storia tra me e Simonetta è stata uno storia con alti e bassi, basata sulla fiducia e sul rispetto. Non c'è mai stato nessun litigio. Ci siamo lasciati per un breve periodo, nell'estate del 1989. Abbiamo fatto le vacanze con gli amici della comitiva. Poi siamo tornati insieme. È stata la mia ragazza fino a quel 7 agosto, quando è stata uccisa».
Simonetta vista la sera prima. Busco spiega di non aver visto Simonetta quel giorno: «L'avevo vista la sera prima». Quanto alla traccia di saliva trovata sul reggiseno della ragazza, spiega: «Il sabato ci siamo incontrati da Anna Rita, un'amica. Aveva la casa libera. A 20 anni si cercano i momenti per stare insieme».
Un interrogatorio durato 12 ore. Di quei giorni tragici Busco ricorda il lungo interrogatorio: «Durò 12 ore, con davanti le foto del corpo di di Simonetta martoriato. Mai, lo giuro sui miei figli, avrei potuto fare una cosa così. Solo un animale può ridurre una persona così. Non credo che mi avrebbero lasciato andare se avessero avuto qualche dubbio. Eppure, dopo una notte e una mattina intere chiuso in quell'ufficio di tutta la mia deposizione hanno scritto solo una pagina. Per 17 anni tutto si è fermato. Poi con le nuove indagini sono tornati a chiedermi dov'ero. Io non lo ricordavo più. Ho chiesto di cercare nella mia deposizione di allora. Ma nessuno aveva trascritto quell'alibi».
Amore e lacrime: ecco il mondo di Raniero, l'uomo degli enigmi
di Nino Cirillo
IL MESSAGGERO. ROMA - L’ultimo enigma di Via Poma s’è incarnato in quest’uomo precocemente calvo - ma cominciò a perdere capelli molto prima che una Giustizia per lo meno incerta decidesse di rioccuparsi di lui - che scoppia a piangere ogni volta che vede qualcuno. Copiose lacrime di rabbia sgorgarono dal suo volto anche la mattina che vennero a dirgli, a lui che li aspettava tremante in casa: guarda, Raniero, che il processo si farà, guarda che di questo processo tu sei rimasto l’unico imprevisto imputato.
Raniero Busco piange anche quando incrocia gli occhi della madre, quando accompagna i figli a scuola, quando va a farsi una capatina -nell’assurda speranza che i bei tempi ritornino- al Bar dei Portici di Morena. Ci fosse qualcuno disposto a organizzargli una qualche campagna stampa, di quelle per esempio che si organizzano per i politici, potrebbe raccontare in giro -senza allontanarsi troppo dalla realtà- che questo è un uomo sull’orlo del burrone.
Non staremmo qui a parlarne se non ci fosse già la sentinella che in quel burrone non ce lo farà cadere mai, che lo ha salvato già una volta dagli incubi del passato, dandogli figli e famiglia, e un futuro normale, e che sembra decisa a salvarlo ancora, oggi, dai fantasmi che ritornano e da un’inchiesta che non vuole finire mai. Si chiama Roberta Milletari, questa eroina del Mondo di Raniero, ha poco meno dei suoi 44 anni, lo ha sposato il 26 di settembre di undici anni fa, e ha messo al mondo per lui due gemellini che sono un amore e che ormai hanno otto anni.
Roberta è anche bella, di una bellezza che con via Fosso di Sant’Andrea 45 non c’entra niente, una bellezza televisiva si potrebbe dire se non si rischiasse di fare un elogio di troppo alla tv. E’ una che domina la scena, qualsiasi scena affronti, e che sta dominando con serenità e fermezza anche queste difficili giornate. Smista telefonate, colleziona ritagli di giornali, protegge il suo Raniero da ogni contatto che potrebbe procurargli pena ulteriore.
E Roberta è una che parla: «Sì, l’abbiamo detto ai nostri figli che questo processo si farà. Abbiamo tentato di spiegare loro, tenuto conto dell’età, anche cosa è un processo. E sa alla fine che mi hanno detto, benedetti bambini: mamma, ma dobbiamo venire anche noi?».
Roberta è impiegata alla Coin -delle sue vecchie ambizioni di studentessa del Liceo artistico è rimasto solo una specie di bassorilievo che ideò lei stessa come bomboniera di matrimonio- e abita con Raniero in quella vecchia, ampia casa di famiglia che il padre di Busco costruì negli anni’80 a Morena. Una casa oggi divisa in quattro, perché nessuno se ne è voluto andare. Una parte alla mamma Giuseppina , vedova di Eugenio dal 1989, un anno prima dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, una parte al primo figlio Mauro, 48 anni, sposato a una poliziotta, la terza parte a Raniero e Roberta e l’ultima al terzo fratello, Paolo, 40 anni, titolare di un piccolo centro benessere proprio in zona.
Tutti lì , tutti a contare i giorni che separano da Raniero da questo processo, da questo appuntamento con la sorte che nessuno si sarebbe mai sognato di fissare. La gente di Morena vuole bene a questa famiglia, li ha subissati di attenzioni e di solidarietà, ma la chiamata più preziosa la racconta sempre Roberta. «E’ vero, dal Canada, da Vancouver dove è andata stabilirsi, ci ha chiamato, quando ha saputo del rinvio a giudizio, una vecchia amica di Simonetta, Roberta S., una che negli anni è diventata prima amica di Raniero e poi mia. Ci ha chiamato la prima volta e continua chiamarci ogni giorno. E dice sempre: non ci dormo la notte. Sapesse noi...». Fossimo in qualcuno di questi nuovi Sherlock Holmes andremmo a Vancouver a sentirla, questa Roberta, chissà che storia può raccontare.
La sera, intanto, sta per calare anche su Morena. Ci dicono che non è neanche il caso di bussare, l’anziana madre Giuseppina, con i suoi 75 anni, non ha proprio voglia di vedere nessuno. Restano solo le parole di Roberta al telefono: «Che vuole che dica? Vorremmo solo tornare a una vita normale, che so, una giornata al mare a Torvaianica. Torvaianica, un posto per gente come noi, mi sono spiegata?». Sarà solo l’inizio, ma questa Roberta dà proprio l’idea che alla fine la spunterà lei. Per il suo Raniero, ovviamente.
Raniero Busco piange anche quando incrocia gli occhi della madre, quando accompagna i figli a scuola, quando va a farsi una capatina -nell’assurda speranza che i bei tempi ritornino- al Bar dei Portici di Morena. Ci fosse qualcuno disposto a organizzargli una qualche campagna stampa, di quelle per esempio che si organizzano per i politici, potrebbe raccontare in giro -senza allontanarsi troppo dalla realtà- che questo è un uomo sull’orlo del burrone.
Non staremmo qui a parlarne se non ci fosse già la sentinella che in quel burrone non ce lo farà cadere mai, che lo ha salvato già una volta dagli incubi del passato, dandogli figli e famiglia, e un futuro normale, e che sembra decisa a salvarlo ancora, oggi, dai fantasmi che ritornano e da un’inchiesta che non vuole finire mai. Si chiama Roberta Milletari, questa eroina del Mondo di Raniero, ha poco meno dei suoi 44 anni, lo ha sposato il 26 di settembre di undici anni fa, e ha messo al mondo per lui due gemellini che sono un amore e che ormai hanno otto anni.
Roberta è anche bella, di una bellezza che con via Fosso di Sant’Andrea 45 non c’entra niente, una bellezza televisiva si potrebbe dire se non si rischiasse di fare un elogio di troppo alla tv. E’ una che domina la scena, qualsiasi scena affronti, e che sta dominando con serenità e fermezza anche queste difficili giornate. Smista telefonate, colleziona ritagli di giornali, protegge il suo Raniero da ogni contatto che potrebbe procurargli pena ulteriore.
E Roberta è una che parla: «Sì, l’abbiamo detto ai nostri figli che questo processo si farà. Abbiamo tentato di spiegare loro, tenuto conto dell’età, anche cosa è un processo. E sa alla fine che mi hanno detto, benedetti bambini: mamma, ma dobbiamo venire anche noi?».
Roberta è impiegata alla Coin -delle sue vecchie ambizioni di studentessa del Liceo artistico è rimasto solo una specie di bassorilievo che ideò lei stessa come bomboniera di matrimonio- e abita con Raniero in quella vecchia, ampia casa di famiglia che il padre di Busco costruì negli anni’80 a Morena. Una casa oggi divisa in quattro, perché nessuno se ne è voluto andare. Una parte alla mamma Giuseppina , vedova di Eugenio dal 1989, un anno prima dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, una parte al primo figlio Mauro, 48 anni, sposato a una poliziotta, la terza parte a Raniero e Roberta e l’ultima al terzo fratello, Paolo, 40 anni, titolare di un piccolo centro benessere proprio in zona.
Tutti lì , tutti a contare i giorni che separano da Raniero da questo processo, da questo appuntamento con la sorte che nessuno si sarebbe mai sognato di fissare. La gente di Morena vuole bene a questa famiglia, li ha subissati di attenzioni e di solidarietà, ma la chiamata più preziosa la racconta sempre Roberta. «E’ vero, dal Canada, da Vancouver dove è andata stabilirsi, ci ha chiamato, quando ha saputo del rinvio a giudizio, una vecchia amica di Simonetta, Roberta S., una che negli anni è diventata prima amica di Raniero e poi mia. Ci ha chiamato la prima volta e continua chiamarci ogni giorno. E dice sempre: non ci dormo la notte. Sapesse noi...». Fossimo in qualcuno di questi nuovi Sherlock Holmes andremmo a Vancouver a sentirla, questa Roberta, chissà che storia può raccontare.
La sera, intanto, sta per calare anche su Morena. Ci dicono che non è neanche il caso di bussare, l’anziana madre Giuseppina, con i suoi 75 anni, non ha proprio voglia di vedere nessuno. Restano solo le parole di Roberta al telefono: «Che vuole che dica? Vorremmo solo tornare a una vita normale, che so, una giornata al mare a Torvaianica. Torvaianica, un posto per gente come noi, mi sono spiegata?». Sarà solo l’inizio, ma questa Roberta dà proprio l’idea che alla fine la spunterà lei. Per il suo Raniero, ovviamente.