Ricorda professore gli entusiastici proclami al popolo proletario lanciati dalle pagine di quel giornale?
"A Torino, a Roma e a Marghera si comincia a sentire un incredibile odore di bruciato. Quando tutto questo avverrà non lo so, ma è vicino, terribilmente vicino".
Ma lei, per molto tempo, se n’è andato lontano, lontano dai luoghi dove ha predicato quell’attività di sabotatore, di assenteista, di deviante, di criminale che tanto
Non ho nemmeno la pretesa di interessarla, anzi sono certo che nemmeno la sfiora il sospetto della mia esistenza, il peso della mia solitudine (la solitudine non si può condividere e, per la verità, anche io sono disinteressato alla sua sorte). Devo confessare (a me stesso non a lei) che talvolta certi suoi scritti hanno affascinato la mia fantasia ed inconfessabili idee di rivolta e di rivincita hanno popolato i miei desideri. Dare l’assalto al cielo! Che idea fantastica! Ed è stato duro dover riconoscere che il cielo non teme i nostri paradossali e ridicoli assalti poiché è per sua intima natura indifferente. Forse Lei intendeva il cielo della Politica? L’irraggiungibile stanza dei desideri dalla quale dovrebbe sgorgare l’alimento per i bisogni dell’umanità. La Politica, egregio professore è equamente indifferente al cielo, agli uomini, alle donne, alle piante, agli animali (compresi i cani). La politica è arte della mediazione e se ne sta nel mezzo per non dispiacere ad alcuno.
Quel che ci fa diversi (quel che ci ha fatto sempre diversi) è la cognizione del dolore. Io non riesco ad essere indifferente al dolore (che sia mio o degli altri non ha importanza), così come non riesco ad essere indifferente all’indifferenza.
Mi vorrà perdonare se confesso di non aver mai sentito il calore della comunità proletaria. Vede sono vissuto in un quartiere di povera gente e dei proletari ho altri ricordi: due ragazzi proletari mi rubavano il pallone quando lo portavo al campetto e ricordo il loro odore aspro, ricordo una bambina proletaria che, ogni qualvolta le proponevo un gioco, voleva mostrarmi la sua maglietta bucata, ricordo il sapore di certe minestre e della frittata che una vecchia suora preparava per i piccoli proletari che frequentavano il suo catechismo, ricordo anche un proletario non più giovane che bestemmiando stracciava per la strada, di fronte a noi ragazzini attoniti, cartamonete da mille lire.
Avevo veduto al telegiornale delle 20.00 il corpo del povero Pier Francesco Lorusso afflosciato sull’asfalto di via Mascarella, a Bologna. Era l’11 marzo. L’indomani si scatenò l’inferno. Zangherì, Zangherà, Zangheremo
Correvano per le vie del centro, si disperdevano nei vicoli e poi tornavano a riunirsi, le molotov esplodevano nelle strade spandendo dopo il primo impatto nuvole nere di fumo e l’odore denso della benzina. Correvano col volto coperto dai passamontagna, dai fazzoletti rossi ed emergevano nella nebbia dei lacrimogeni come relitti di sogni sconvolti, come incubi. Correvano e piangevano sospinti dalla forza che l’acqua sospinge attraverso le rocce, che la linfa fa scorrere nelle radici contorte, che gonfia i veli dei sudari, che di febbre inebria i colori dei fiori.
Io stavo muto a guardarli e trattenevo nel silenzio della mia creta i loro medesimi rancori. Già sapevo che nessuno li avrebbe capiti e quella era la mia tortura.
Le Parole asciugano le Lacrime, le Parole chiamano pietre di rabbia e il Fuoco sgorga come da una Fonte. Chi ha ucciso Lorusso? Non ditemelo non voglio saperlo. Oh uomini di dura voce, io vi chiamo! Voi che dominate i sogni, voi che piegate l’acciaio delle battaglie, voi che predicate l’onore, io vi chiamo! Con la bocca piena di sangue rappreso egli giace sulla pietra e il sudore gelato bagna la pelle che già si scompone e vagano i vermi nel sudario la sua linfa giovanile. Venite! Venite a vedere questo corpo con il cuore scoppiato e pregate il vostro dio. Noi, con la bocca piena di sole e di sassi, vagheremo come un fiume in piena nella città.
Ore 23.10 la radio trasmette ancora. Stanno scendendo da via Irnerio! Brucia
Ore 23.15 la radio non trasmette più! Sono entrati, sono entrati! Siamo con le mani in alto! Stanno staccando i microfoni! Ecco... Crak. E fu il silenzio. Ma i ragazzi fuori continuarono a correre sotto i portici e ad illuminare di caldi falò l’oscurità gelata.
Quello fu l’anno dei funerali.
Il 21 aprile correva Settimio Passamonti nella sua divisa di sottufficiale, poi cadde e il suo sangue restò grumoso sull’asfalto, mentre la solita triste nebbia dei lacrimogeni pesava nelle strade di Roma, valicava le mura del cimitero e avvolgeva nel nulla il grande angelo che spezza le catene. Dove il sangue era sparso qualcuno scrisse col gesso: E’ vendicato, Lorusso è vendicato. Anche quella sera fu difficile per me andare a dormire. Un altro ragazzo è morto e presto, come tutti i defunti della terra verrà infilato in un buco, chiuso con la calce e dimenticato. Ancora qualcuno che piange sommessamente e scivola lacrime dal labbro al sudario. Chi è quella? Una sposa, una fidanzata, oppure una giovane madre? E che dolore porta? Il Presidente mandò una corona e un telegramma, mentre il Ministro condannò il gioco folle del ribellismo dentro e fuori l’università. Roma e Bologna non possono diventare palestre per
La morte, qualsiasi morte, alla fine, spogliata di colori e di rumori, finisce per diventare una morte qualsiasi. Sangue che si fredda, coscienza che si perde. E’ pazzesco tentare di dare un significato alla morte. Pazzesco ed inutile. Ma la Storia, egregio professore, necessita di significati ed allora la morte si carica di simboli. Se si tratta di un omicidio ci si interroga intorno al movente, si cerca l’assassino, si ricostruisce lo scenario del delitto. Se poi si tratta di un omicidio politico la morte si tinge di colori e la cassa viene ricoperta di drappi bianchi, neri o rossi, oppure di bandiere. Infine si prega, si piange, si bestemmia, si parla. Tutto per riconoscere alla vita l’estremo tributo. Se non fossero le parole a cercare di affermare la vita, ma la vita stessa, senza aggiungere altro!
Era il 12 maggio ed il Ministro aveva vietato la manifestazione, così che la città venne di nuovo invasa dalla nebbia e dalla rabbia. Tra piazza San Pantaleo a piazza della Cancelleria si scatenò l’inferno. Alcune centinaia di autonomi cercavano lo scontro: si vedeva da come si muovevano, portavano buste e zaini pieni di molotov. Caramba attento ancora fischia il vento, Ce-le-ri-no As-sa-ssi-no. Lungo Corso Vittorio Emanuele stazionavano due furgoni blindati e numerosi plotoni di celere con i giubbetti antiproiettile e, dietro i furgoni, una quindicina di poliziotti vestiti come gli autonomi, con i fazzoletti rossi sul viso. A piazza Campo de’ Fiori il fuoco lambì la tunica del monaco che già là era stato bruciato e mentre calava la sera il fuoco ancora mordeva l’antica eresia. La guerriglia durò alcune ore. Alle 19.50, mentre bruciavano le auto messe di traverso, Giorgiana Masi correva da ponte Garibaldi verso viale Trastevere. Il proiettile penetrò sotto la scapola ed uscì dal petto spappolando un polmone e recidendo l’aorta. Chi ha ammazzato Giorgiana? Lupi scesi dalle montagne in cerca di prede! Lupi rabbiosi nascosti come topi lungo gli argini, là dove il fiume s’incunea sotto l’arcata di un ponte e lambisce i contorni dell’isola.
E sfilò un altro funerale. Sussurri di voci e rumori di passi.
Alle cinque della sera. Il suo letto era una bara con le ruote. Taciti garofani poggiati sulla solitudine della cassa e nella cassa nient’altro che solitudine.
Alle cinque della sera. Qualcuno lasciò sulla bara una silenziosa poesia. Sangue intrecciato nel mio sangue. Tu risusciterai dai morti perché son vivi – disse il prete – e tu viva tra i morti. Non sei morta, perché essi non sono mai morti.
Alle cinque della sera. I vermi strisciavano nei miei pensieri e si divoravano tra loro. Avrei voluto essere qualsiasi cosa. Vento, campo, erba, nido, piuma, nube, cielo, pioggia, fiume, neve, fumo, mare, luna, lampo, tuono, nebbia, alba, notte. Quasiasi cosa. Nell’aria, nella terra, nell’acqua. Qualsiasi cosa eccetto quello che sentivo di essere in quel momento. Un uomo lontano, forzatamente lontano, che vedeva calare la sera spaventato dalla notte.
Alle cinque della sera. Camminavo dietro una giovane donna che procedeva sola e raccoglieva i fiori caduti sull’asfalto. Li stringeva sul petto poi li lasciava cadere di nuovo e ne raccoglieva altri.
Alle cinque della sera. Ascoltavo frammenti di frasi e parole disperse. Ho conservato quelle parole per tutti questi anni, come fiori rinsecchiti tra le pieghe della memoria. Ora, egregio professore, devo liberarmene! Mi deve perdonare se uscirà un ragionamento confuso, ma non ho proprio la forza di articolarlo altrimenti.
“Se non fosse stata ammazzata, oggi avrebbe cinquanta anni. Chissà se aveva fatto l’amore? E’ atroce morire senza aver fatto l’amore! E’ atroce morire comunque! Se i fiori diventassero ghirlande. Che cazzo vuol dire? Intanto il sole ha continuato a scaldarci. Il sole continuerà a scaldare anche quelli che verranno dopo. Lui brucerà idrogeno, almeno finché avrà idrogeno da bruciare e se ne strafotterà di noi e delle nostre pallide candele. Ho continuato ad indossare Abiti Neri per quella e per tutte le morti che son venute dopo, poiché ogni volta che volevo dismetterli ho veduto il vento, che ha fame, sporcarsi di sangue, perché una è la sorte per i figli dell’uomo e per le bestie,
I giornali pubblicarono una foto destinata a restare famosa. Milano, sabato 14 maggio. Un giovane con il passamontagna impugna a due mani una pistola di grosso calibro. Ha i piedi divaricati in modo perfettamente simmetrico, le ginocchia flesse per ammortizzare il contraccolpo dell’arma, la testa incassata tra le spalle e le braccia appena arcuate. Il corteo si trovava all’altezza di via Carducci, quando sopraggiunse la celere si staccò da esso un gruppo che attaccò a colpi di pistola
Roma 1 luglio: giornata di sole. Due ragazze stanno sedute sui gradini di una chiesa parlano con un giovane che sta in piedi davanti a loro. Una pattuglia di carabinieri apre il fuoco. Maria Pia Vianale e Francesca Salerno restano sui gradini, entrambe ferite. Il giovane esplode a sua volta tre colpi, poi si gira e tenta di fuggire, un proiettile lo raggiunge alla gamba, cade e perde
Roma 8 luglio: serata calda e umida. Domenico Velluto, assolto dall’accusa dell’omicidio dello studente Mario Salvi per aver fatto, così hanno sentenziato i giudici, legittimo uso delle armi, se ne va a cena in trattoria accompagnato da un amico. Il killer che lo attende spara e scompare, ma invece di Velluto ammazza il suo amico.
Agosto romano: erba secca e luce che cuoce adagio le mura. Sere di cieli azzurri, tetre di pipistrelli svolazzanti. Herbert Kappler, l’aguzzino, fugge via.
Bologna 23 settembre: convegno internazionale sulla repressione. Ci hanno chiesto se noi siamo solidali con i compagni della lotta armata, ci hanno chiesto se noi vogliamo difendere anche loro. Abbiamo risposto che noi siamo solidali con loro, abbiamo risposto che noi difenderemo tutti i compagni, anche se non ne condividiamo le scelte teoriche. Come se ammazzare la gente potesse ridursi ad una scelta teorica. Quale scelta? Quella di fare un morto invece che due, perché i compagni non avrebbero capito?
Roma 30 settembre: faceva ancora caldo quel caldo settembre. Chi ha ammazzato Walter Rossi? Nessuno riuscirà mai a saperlo. Intanto a Torino brucia l’Angelo Azzurro e brucia Roberto Crescenzio. Giornalista schiavo maledetto te lo scriviamo noi l’articolo perfetto. Ma invece che scrivere spappolano cosce e polpacci.
Egregio professore, che cazzo di casino! Erano queste le conseguenze pratiche che lei desiderava? Le conseguenze che avrebbero dovuto scaturire dall’esternazione geometrica della violenza sono state alfine rapine, affatto diverse da quelle compiute dai delinquenti comuni, e omicidi, affatto diversi, almeno negli effetti, dagli omicidi che ogni giorno sottraggono vite.